Taglio al costo del lavoro? Difficile ma si può

Effetti degli incentivi

Una riflessione attenta su quanto accaduto all’occupazione dipendente nel settore privato nel 2015 è di aiuto nel dibattito sul destino – proroga o abolizione o selezione della platea – degli sgravi contributivi per i neo assunti.

Il Rapporto Inps 2016 ha messo a disposizione alcune evidenze solide:

nel 2015 le assunzioni a tempo indeterminato sono aumentate in modo oltremodo significativo, trainate principalmente dagli sgravi contributivi: da circa 1,3 milioni per ciascun anno del biennio 2013-2014 a oltre 2 milioni nel 2015; di queste, circa 1,2 milioni hanno beneficiato dell’esonero (per chiarezza: questi valori sono al netto delle 400mila trasformazioni con esonero da contratti a tempo determinato in indeterminato nella medesima impresa);

la congiuntura 2015 (dinamica export, Pil) non è stata così favorevole da motivare una crescita dei posti di lavoro pari a quella osservata;

protagoniste delle assunzioni sono state imprese in crescita occupazionale: infatti meno di 300mila assunzioni esonerate (pari a un quarto del totale esonerate) sono state realizzate da imprese con occupazione stabile o in contrazione (lo sgravio in questi casi ha finanziato il turnover). L’esonero, nella maggioranza dei casi, non si è affatto risolto in un’esclusiva riconversione contrattuale di lavoratori già occupati presso le medesime aziende, come sostengono quanti confondono il saldo aggregato dei movimenti complessivi (che misura la variazione occupazionale complessiva) con la misura dei posti di lavoro creati, che dev’essere calcolata tenendo conto dei saldi impresa per impresa;

la stragrande maggioranza di quelle utilizzatrici degli esoneri è costituita da piccole imprese (solo un terzo dei rapporti esonerati è stato attivato da imprese con oltre 30 dipendenti).

Gli incentivi previsti per i neoassunti nel 2015 hanno provocato dunque uno shock occupazionale, come del resto atteso, trattandosi di un abbattimento del costo del lavoro per tre anni attorno al 30 per cento. L’ammontare complessivo degli incentivi erogati non si è risolto in una perdita secca (deadweight loss) per il bilancio pubblico. Perché le scelte delle imprese, sia in materia di volumi occupazionali che di tipologia, sono state effettivamente “forzate”, incentivandole a investire in capitale umano. E non si è trattato di un mero anticipo di un paio di mesi rispetto ad assunzioni che sarebbero comunque avvenute, ma di una “scommessa” sul miglioramento del contesto economico.

L’accesso all’incentivo è durato un anno e le imprese lo sapevano. Attualmente è molto più modesto e il livello delle assunzioni a tempo indeterminato è ritornato a essere, sostanzialmente, quello del 2013-2014.

Poiché le assunzioni a tempo indeterminato sono composte da una quota, abbastanza stabile quantitativamente, di passaggi tra imprese (mobilità normale dei lavoratori più mobilità generata dalle alterne fortune delle aziende appaltatrici nei settori dei servizi) non esonerabili, è logico che la quota di assunzioni incentivate risulti, come dai dati dell’Osservatorio precariato, modesta (attualmente attorno al 30 per cento delle assunzioni) perché rispetto al 2015 la riduzione dei rapporti eligibili è ancora più elevata di quella dei rapporti totali a tempo indeterminato. È chiaro che il nuovo incentivo non è in grado di forzare alcuna scelta delle imprese: ha quindi una funzione di premio a chi assume, non di incentivo. Per questo il rischio che l’attuale incentivo sia effettivamente un deadweight loss è elevatissimo. E quindi è più che sensato l’interrogativo: perché non dedicare le medesime risorse a un taglio strutturale del costo del lavoro piuttosto che a interventi parziali?

Risultati nel medio termine

Tralasciando la questione, prioritaria, del come finanziare un taglio strutturale (non può penalizzare le future pensioni pubbliche) e di che entità possa essere, un aspetto di rilievo è relativo a ciò che ci si attende da esso: mentre una politica di forte incentivazione alle nuove assunzioni ha effetti congiunturali (a breve) sui livelli occupazionali (e quindi su salari, consumi e così via), una riforma strutturale, a parità di tempistica, non ne ha pressoché nessuno. Cercare nei dati sull’occupazione complessiva gli effetti a breve di un taglio del costo del lavoro di alcuni punti sarebbe esercizio funambolico. Ci si può anche riuscire – la strumentazione oggi è sofisticata – ma se molti commentatori non si sono arresi neanche di fronte alle macroscopiche evidenze per il 2015, come si potrà convincerli di effetti a occhio nudo nemmeno minimamente percepibili?

L’inutilizzabilità nel dibattito non è argomento sufficiente per decidere sulla bontà delle politiche e sull’opportunità di una riduzione del costo del lavoro. Questa dovrebbe servire – e solo come tale esser motivata – per la competitività di sistema di medio periodo, grazie alla riduzione della forbice rispetto ai costi corrispondenti dei paesi con i quali vogliamo misurarci.

Ma occorre riconoscere che oliare il sistema non è la stessa cosa che spingerlo: entrambe azioni doverose che però, anche a parità di investimento, generano risultati in tempi significativamente diversi. Ed è meglio dirlo per non suscitare aspettative eccessive, candidate a essere deluse.

Fonte: http://www.lavoce.info/archives/42967/costo-del-lavoro-tra-sgravi-e-tagli-strutturali/